AmarcordIl Pallone

AMARCORD. IL CALCIO E I SUOI MAESTRI

Non ci sarebbero bravi calciatori non ci fossero dei grandi maestri! Almeno una volta era così. E ci sarà pur un motivo se diverse generazioni che hanno giocato a pallone serbano affetto – per tutta la vita – per alcuni di quelli che furono i rispettivi maestri, che insegnarono calcio e, soprattutto, insegnarono ad amarlo.

A dare del tu al pallone, a “parlare” con esso e non con i social network. Ora sicuramente le cose son cambiate e non a caso i grandi maestri sono calati di numero fino ad avvicinarsi pericolosamente allo zero.

Quelli di una volta, invece, no, non si dimenticano! Non li hanno dimenticati molti di coloro che leggeranno e che coglieranno questa occasione per fare un tuffo nel passato.

Ricordiamo, allora, quattro  grandi maestri della Tuscia, quelli che, appunto, contribuirono a scandire i ritmi di tante giornate trascorse su un campo di gioco, quasi sempre in tessa.

SERGIO ANDREOLI

E’ stato terzino della Roma che nella stagione ‘41-42 vinse il suo primo scudetto. Con i “Lupacchiotti” ha giocato in totale centottanta gare, segnando anche nove reti. Era nato nel 1922 a Capranica. Calcisticamente era cresciuto nel Perugia, dove fu notato da un certo Schaffer, allora tecnico giallorosso. All’ epoca la Roma lo pagò – da giovanissimo – venticinque mila lire. Terminata la carriera da giocatore, Andreoli iniziò quella di tecnico, una attività che comprese anche il settore giovanile della Viterbese.

“Era la stagione 66/67 – dice Alverio Rossi, che lo ha avuto come mister – e la squadra era la De Martino, partecipante ad un campionato riservato alle riserve della prima squadra, con inseriti diversi giovani. L’allenatore era Sergio Andreoli, uomo abbastanza deciso nei modi di fare. Pretendeva il massimo da tutti noi, non si scherzava di certo con lui: la tecnica contava fino ad un certo punto. Dentro il campo bisognava “sputare il sangue”, come si suol dire.

Era abituato al calcio vecchia maniera, soprattutto basato su una difesa arcigna, che pensava soprattutto a non prenderle. Una difesa bloccata, con i centrocampisti che andavano anch’essi a marcare e tamponare, per poi rilanciare immediatamente.

Per far questo pretendeva un agonismo elevatissimo e faceva spesso riferimento a quando giocava lui, ai metodi di allora. A quello scudetto vinto con la Roma, di cui aveva piacere di parlare, ogni tanto.

Il primo anno della mia esperienza con lui fu il migliore: tutti i giocatori provenivano da Roma: erano bravi e ne venne fuori un campionato di prim’ordine. Il secondo anno si passò ad una rosa fatta di forze locali e Andreoli non riuscì ad ottennere gli stessi risultati.

Successivamente non l’ho seguito come allenatore: so che allenòAnche il Pianoscarano, ma sinceramente ricordo poco del resto”.

GIOVANNI PATARA

Mi arrivò sul telefonino un “sms” di Luciano Bernini: “è morto il Sor Giovanni!” E già, se ne era andato Giovanni Patara, uno dei più grandi maestri di calcio della Tuscia.

Si era addormentato per sempre a Villa Margherita, dopo alcuni mesi di degenza e le condizioni di salute peggiorate di continuo. Se ne era andato con la serenità e la compostezza di sempre. Forte di quei valori umani che lo portarono ad essere un maestro ineguagliabile per intere generazioni di calciatori. Ma anche una sorta di “padre”, visto che non aveva avuto figli.

Così legato ai suoi valori, alle sue radici – ed anche al suo Pianoscarano – che non volle mai cercare gloria altrove, in società che gli avrebbero garantito tutt’altra visibilità e riconoscimenti economici, salvo una breve parentesi alla Viterbese.

Ma il suo cuore rimase sempre al vecchio campo di Pianoscarano, quello che una volta era immerso in mezzo agli uliveti, che poi hanno lasciato spazio ai palazzi.

Quello con la tribunetta fatta di tufo, su cui si sono seduti tantissimi giovani e non. Quelli del “pane e pallone”, quelli che davvero si divertivano e crescevamo sereni con un calcio pulito e sano.

Il suo capolavoro rimane la squadra allievi del 1971/72, che riuscì ad arrivare alla finale regionale superando società ben più blasonate e consacrando giovani del calibro di Daniele Goletti, Gianni Caporossi, Alfonso Talotta, Luciano Bernini, Sergio Corinti, Giorgio Filippi, Luciano Grazini, etc. Tutta gente che oggi avrebbe spopolato tra gli under della serie D, tanto per fare un paragone. Erano state, forse, le sue “creature” meglio riuscite, per i quali aveva da subito nutrito grande affetto, ma anche propositi di farli crescere calcisticamente il più possibile. Dal primo all’ultimo, da Filippi, che gli piaceva chiamare “Giotto”, al “Babbo” Goletti, che spinse verso Cagliari e verso una prestigiosa carriera.

L’ultimo saluto al popolare “Sor Giovanni” – quello che ti dava uno scappellotto se, quando tiravi di “collo” piede,  non piegavi il corpo e non facevi la “buchetta” sulla terra – è stato un venerdì mattina, nella piccola cappella della casa di cura montefiasconese.

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