“BACKUP”. ATTILIO PIERI, ENZO SCARPA E OMAR MARTINETTI …
ATTILIO PIERI
E’ uno dei “Mitici del ‘70”, di una delle promozioni della Viterbese tra le più amate. Il giorno dopo la promozione in serie C, nel 1970, un quotidiano sportivo nazionale, stilando le pagelle annuali, scrisse che il sessanta per cento della promozione andava ascritto a Pieri. Valutazione probabilmente un po’ eccessiva, che non avrà fatto molto piacere a più di un compagno di squadra, ma di certo nessuno poteva negare che fosse stato uno dei pilastri. Non soltanto per quelle trentaquattro partite giocate, senza saltarne nessuna, ma per un rendimento costante, vincente, anche quel giorno in Sardegna, a Calangianus, dove la Viterbese incassò una inopinata sconfitta con un gol di Alpini.
Fu l’unico errore di Pieri di tutta la stagione in cui Pieri giocava da libero, a testa alta, all’occorrenza avanzando a centrocampo, tanto sapeva trattare bene il pallone
Pieri proveniva dal vivaio dell’Omi Roma, che – a quei tempi – vantava un grande vivaio, che se la batteva, per i titoli italiani giovanili, con la Roma. Una formazione tecnica di tale genere, senza scorciatoie, lo fece maturare in tempi brevi, per farlo diventare successivamente pure uno specialista di promozioni, visto che nel suo palmares se ne contano ben tre.
ENZO SCARPA
Scarpa arrivò alla Ternana, proveniente dalla Cavese, a settembre del ‘83, in C1, con Giovanni Meregalli in panchina. Fu uno dei passaggi di una brillante carriera, con stagioni assai rilevanti alla Reggiana, addirittura con sedici reti segnate in tre anni, non pochi per un centrocampista, seppur dalle doti più offensive, in quella fase del suo percorso calcistico. Berrettini lo chiamò a Viterbo per catalizzare il gioco di una squadra che diventò grande protagonista, anche per la sua manovra briosa. Con la maglia numero dieci caratterizzò immediatamente quella stagione, segnando sia all’esordio con la Spes, sia nella prima vittoria esterna ad Alghero. Tealizzò una bella doppietta contro l’Anziolavinio eppoi continuò a segnare, fino all’ultimo gol, quello di Tivoli, nel crescendo rossiniano della Viterbese che sognava la C e che s’infranse, invece, nell’atto conclusivo del mancato successo di Grosseto. Quell’anno, agli inizi dell’ultimo decennio del vecchio millennio, quasi tutti i giorni allo stadio, ad assistere agli allenamenti della Viterbese c’erano le due gemelline di Enzo, vivaci e biondissime, sempre in coppia, correndo vicino la rete di recinzione della Palazzina, con qualche anno in meno e senza quei centimetri che, poi, le hanno messe in condizioni di essere buone atlete. Quelle due gemelline, che gettavano le braccia al collo del padre, quando usciva dagli spogliatori, a seduta terminata, l’hanno sempre seguito, anche se poi sono diventate delle brave pallavoliste ed allora è stato Enzo ad andare a vederle durante le partite.
OMAR MARTINETTI
Ha fatto di tutto, ha segnato, ha corso, ha indossato la fascia di capitano, è stato l’artefice di tanti successi gialloblù. Ha riso e scherzato con i compagni, ma ha anche pianto, in una sera di inizio luglio, a San Martino al Cimino, quando seppe che la Viterbese non si era iscritta al campionato, sparendo nel nulla.
Salutò tutti con la morte nel cuore e si avviò verso la sua Umbria, confortato dalla famiglia, dal papà, che non si perdeva una partita della Viterbese, sempre in piedi, accanto ad una colonna dell’ultimo piano della tribuna, dove c’era un corridoio.
Non pianse, ma si commosse molto quando tornò alla Palazzina in veste di ex, con la casacca della Reggiana. Vinse e segnò, a testa bassa, cercando di infierire meno possibile nei confronti di una squadra che stava scivolando verso la retrocessione.
Lui abbassò lo sguardo, ma la gente lo applaudì lo stesso, riconoscendo il suo percorso precedente a Viterbo e la professionalità con cui aveva onorato il proprio stipendio corrisposto dalla società emiliana. Un Omar più maturo arrivò la terza volta, accolto come uno di famiglia alla Palazzina, per cercare di vincere il campionato di serie D. Ci provò il primo anno, poi il secondo, ma quando si rese conto che la società non gli piaceva, salutò per l’ultima volta.
