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LA BELLA INTERVISTA DI GIORGIO PALENGA A FRANCESCO PILERI

di Giorgio Palenga

Dalla gloria di un successo di dimensioni planetarie, che lo aveva fatto diventare una delle figure di riferimento tra i manager del Motomondiale degli anni d’oro, a ritrovarsi poi nella polvere di un’inchiesta della guardia di finanza per bancarotta, vicenda che lo ha portato carcere, con la detenzione preventiva. Con la vergogna di associare a una vicenda di cronaca giudiziaria un nome – quello della famiglia Pileri – che fino ad allora era stato sinonimo di vittorie sportive e successi imprenditoriali. Al punto di decidere di sparire, una volta conclusa con un patteggiamento la vicenda oggetto dell’inchiesta, di lasciare l’Italia e di ricostruirsi una vita. Per arrivare ai giorni nostri, quando di fronte a chi scrive si presenta un uomo nuovo, un Francesco Pileri che ha avuto la capacità di rialzarsi e ripartire e che oggi ha ritrovato la serenità di poter raccontare tutto dei suoi primi 68 anni: il periodo dei trionfi, la clamorosa caduta, la lenta risalita, la rinascita.

Francesco Pileri, il nome della sua famiglia evoca tutt’ora tra i ternani memorie di grandi successi, nello sport e nel commercio. Ma anche la pagina buia di una vicenda giudiziaria. Iniziamo da dove tutto è cominciato. Dalla musica.

E’ proprio vero. Mio padre, Centauro, classe 1921, lavorava alle Poste ma suonava la fisarmonica ad altissimi livelli. Così come mamma, Malvisia, di quattro anni più giovane, anche lei fisarmonicista ed anche cantante. Arrivarono a far parte dell’orchestra della Rai di Torino, diretta all’epoca da Gorni Kramer. Nel dopoguerra, così, decisero di aprire una scuola di musica e un negozio di strumenti musicali. Si chiamava Pileri, era in viale Brin, davanti alle scuole industriali. Poi, ad inizio degli anni 70, ci fu il passaggio in quella che divenne poi la storica sede di via Eugenio Chiesa 2 e, agli strumenti musicali, venne affiancata la vendita di elettrodomestici. E nacque Pileri Casa.

– Negli anni di viale Brin iniziò anche la passione per le corse in motocicletta di suo fratello, Paolo, che nel 1975 diventerà campione del mondo della classe 125…

Paolo era del ’44, aveva 11 anni più di me. Vicino al nostro negozio c’era l’officina di Libero Liberati, che in quegli anni correva il Mondiale, fino a vincerlo nel 1959. Paolo era ragazzino, stava sempre nell’officina di Libero. Nacque così il suo amore per le moto e per le corse. E io, che pure ero molto più piccolo di lui, iniziai a seguirlo. Di nascosto dei nostri genitori, facevamo finta di andare a pesca.

– Com’è questa storia? Ci racconti…

Sapevamo che mamma e papà sarebbero stati contrari, così Paolo iniziò a correre a 21 anni con uno pseudonimo, “Richard”, nella classe 50 del campionato italiano. Papà ci dava i soldi per andare a pesca nel weekend, così riuscivamo a coprirci le spese. La moto ce la metteva a disposizione, gratuitamente, un amico meccanico, Mauro De Lorenzi.

– Poi, però, Paolo iniziò a mostrare tutto il suo valore.

Era un campione. Quando passò alla Morbidelli iniziai a fargli da vero e proprio manager. Fui il primo a trovare sponsorizzazioni per la moto. Mi inventai di andare dalle aziende che erano nostre fornitrici del negozio di elettrodomestici. Alla Smeg, piuttosto che all’Ariston, dicevo: “Dato che ti vendo 200 lavatrici, dammi la sponsorizzazione!”. Riuscivamo così a tirar su qualche soldo in più da investire e anche da metterci in tasca. Pensi che Paolo, pur campione del mondo, dalla Morbidelli, per la quale correva, prendeva 500 mila lire al mese di stipendio.

– Le cose, però, sono andate molto meglio, dal lato economico, quando, sempre insieme a suo fratello, deste vita al Team Pileri, che gestì e sfornò campioni, come Gresini e, soprattutto, Capirossi.

Tutto, però, nacque grazie ad Angel Nieto, 13 volte campione del mondo, con cui iniziammo a lavorare. Paolo smise di correre nel 1979, per 6 anni non andai a vedere neanche una gara, però mantenni rapporti di amicizia con molti dell’ambiente, tra cui proprio lo spagnolo. Lui, che aveva vinto tutto, era nella fase finale della sua carriera. Nel 1985 nacque così l’idea: “Mettiamoci insieme, ti affianchiamo un ragazzino italiano e tu corri l’ultima stagione da protagonista”. E così accadde. A fianco ad Angel ingaggiamo Brigaglia.

– Da lì nacque il Team Pileri.

Fino alla fine degli anni 80 corremmo con moto italiane, derivate dalla Morbidelli, col marchio Ducados. Dal 1990 passammo alla Honda. Gestimmo Gresini (5 anni), Casoli, lo stesso Brigaglia. Fino a scoprire un grandissimo campione, come Loris Capirossi, rimasto con noi per 6 anni. Un record assoluto, mai eguagliato da nessun altro team.

– Come riuscì a scoprirlo?

Proprio grazie a Brigaglia, il cui cognato aveva un team nel campionato europeo, dove mosse i primi passi Loris. Mi disse di andare a vederlo, capii subito di avere di fronte un predestinato. Aveva 15 anni. Col Team Pileri Capirossi vinse due mondiali in 125 e fece due secondi posti in 250. Poi salimmo in 500, nel 1995, dove all’epoca le moto non erano come le attuali di MotoGp, salirci sopra venendo da una classe più piccola e guidarle da protagonista voleva dire essere un campione. Quale era Loris. Ma ritengo uno straordinario risultato anche il quinto posto nel 96 con il brasiliano Alex Barros, dietro solo alle Honda Hrc della casa madre, davanti però sia alle Yamaha che alle Suzuki ufficiali.

– Dagli altari delle vittorie alla polvere della vicenda giudiziaria. Lei e suo fratello Paolo conosceste anche il carcere preventivo, durante l’indagine della Finanza. Cosa ricorda di quei giorni?

Facemmo due mesi e mezzo di carcere preventivo, l’accusa era di irregolarità amministrative, fatture false. Abbiamo dovuto affrontare un fallimento come soci di fatto delle due attività di famiglia. Il carcere ha segnato le nostre vite. Devo ringraziare mia moglie e i miei figli che in quei giorni, tutti i giorni, venivano a Sabbione, così che io li potessi vedere, a farmi segno che erano lì, ad aspettarmi. Sono stati di grande conforto. In carcere scrissi tantissimo. A mio padre, mio fratello, mia moglie. Di quello che era successo, di come e perché era accaduto, prendendomi le mie colpe ma liberandomi anche di colpe che non avevo. Scrivere è stato fondamentale. Tutto poi si è concluso con un patteggiamento.

– Come ha vissuto dopo?

Avevo vergogna di farmi vedere a Terni. Un giorno passai a testa bassa davanti a Pazzaglia (locale simbolo della città, a corso Tacito ndr) e fu Adriano Garofoli (industriale, già presidente di Confindustria Umbria ndr) ad avvicinarsi e prendermi sotto braccio: ‘Vieni qua, non c’è niente di cui ti devi vergognare, tu sei forte’, mi disse. Non ci crederà, ma quel gesto mi diede la carica per ricominciare. Poi, grazie a qualche amicizia che conservavo, trovai lavoro alla Honda in India, per portare la mia esperienza di marketing: sono rimasto lì 3 anni. Quindi andai a Malta come consulente del governo. Alla fine decisi di tornare in Italia. – Ora cosa fa? Lavoro per… Sabrina Ferilli, nel senso che lei, insieme al fratello Paolo, sono titolari di un’azienda di economia circolare di cui sono rappresentante. Trattiamo macchine per il compostaggio dell’organico, in pratica tu metti 100 chili di organico, dopo un mese ne escono 20 di terra fertile. Per quanto riguarda le moto mi diverto a scoprire nuovi talenti tra i giovanissimi. Gli faccio da manager, per costruire insieme un futuro. Magari trovo un nuovo Capirossi.

– Che uomo è oggi Francesco Pileri?

Un uomo nuovo. Sono caduto e mi sono rialzato, non è stato facile ma ce l’ho fatta. Non potrò mai tornare al successo degli anni d’oro ma ora vivo tranquillo, ho un mio equilibrio e una mia serenità. Tornassi indietro? Rifarei gli stessi errori, purtroppo, ma solo perché era un sistema assodato, in quel periodo non si poteva fare diversamente. L’unica alternativa era non farlo, cioè mollare tutto e starsene a casa. Ma erano anni di successo, a livello sportivo nessuno può dire nulla, eri dentro un meccanismo, non si calcolavano le conseguenze. Oggi come oggi sono riuscito a trasmettere alla mia famiglia un concetto di vita meno sopra alle righe rispetto a quella che ho fatto io. Mia figlia fa l’insegnante, mio figlio vive negli Usa, dove era andato a lavorare per una grande azienda di scommesse e adesso fa l’arbitro di soccer. I miei figli, da piccoli, pensavano di avere un eroe in casa. Poi mi hanno visto cadere. E hanno capito che il gioco non valeva la candela.”

(NELLA FOTO: PILERI A SINISTRA)

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